L’incantesimo di Mago Learchino – favola di Velise Bonfante

C’era una volta, lontano lontano, un piccolo paese di poche casupole. Un’unica strada l’attraversava, correva sulla destra e conduceva al vicino bosco. Per giungervi bisognava attraversare il ruscello e un piccolo ponte di legno costruito proprio all’ingresso del paese. La strada, inoltrandosi nel bosco, sembrava finire vicino alla vecchia quercia; solo uno sguardo attento scorgeva il sentiero che proseguiva fra rovi e spine, poco usato, portava ad un castello semi distrutto e diroccato, abitato dal potente mago Learchino.

Questo mago era un nanerottolo bruttissimo, più largo che alto, quando camminava l’enorme pancia ballonzolava sulle corte gambette. Gli davano un aspetto grottesco due enormi foruncoli, uno proprio nel bel mezzo del naso e l’altro sul mento.

Inutilmente aveva tentato di migliorare le sue sembianze; pur essendo un mago potente, su di lui i filtri magici non funzionavano e la bruttezza lo rendeva cattivo. Tutte le volte che si guardava allo specchio, la sua cattiveria aumentava. Senza amore, era solo e disperato. In paese, avevano paura di lui. Nessuno osava avvicinarsi al suo castello fatato.

Le mamme raccomandavano ai loro bimbi di non oltrepassare mai, per nessun motivo, la vecchia quercia.

Un bel giorno, due fratelli, Casimiro e Remigio, in cerca di fortuna, giunsero in questo paese. Le strade erano vuote e si meravigliarono di vedere tutte le finestre chiuse e le porte sbarrate. Con l’intenzione di alloggiarvi alcuni giorni, si fermarono all’unica locanda, proprio nel bel mezzo della piazza. Chiesero spiegazioni e l’Oste parlò loro del terribile Mago, consigliandoli di andarsene al più presto. Il terribile Mago Learchino, teneva prigioniera la bella Celestina e, temendo che qualcuno tentasse di liberarla, mal sopportava gli abitanti del luogo e ancor di più non poteva soffrire i forestieri.

I due fratelli si guardarono indecisi. Viaggiavano senza meta; era per loro indifferente restare o partire. Non vollero rischiare, si dissetarono, mangiarono qualcosa e decisero di andarsene. Il paese era troppo triste per il loro carattere. La gente sembrava vittima di un incantesimo, una magia che aveva tolto loro il sorriso e la voglia di vivere. S’incamminarono chiacchierando. Il sole, al tramonto, tingeva le nubi di rosso e di rosa.

– “Rosso di sera, bel tempo si spera”. – Disse Casimiro alzando gli occhi al cielo, poi scrutò meglio fra le nubi e proseguì – Guarda Fratello mio. Dieci aironi bianchi, in volo, si stanno avvicinando. Osserva bene: è molto strano. Ognuno di loro, porta un fazzoletto di colore diverso annodato sul collo.

– Stanno planando. Andiamo a vedere.

– E il cattivo mago Learchino? – Casimiro era preoccupato.

– Non è necessario farci vedere da lui. Resteremo nascosti. – Lo tranquillizzò Remigio.

Si avviarono sollecitamente in cerca degli aironi, ma di loro nessuna traccia. Attraversarono il bosco e giunsero ad uno stagno, nel frattempo era calata la sera. Ombre scure si allungavano ovunque nel silenzio.

I due fratelli si guardarono attorno. Quasi nascosta da un grosso albero, intravidero una misera casupola: dal camino usciva del fumo, ma all’interno nessun lume era acceso.

– Bussiamo. – Propose Casimiro

– Aspetta; questa casa potrebbe essere l’abitazione del cattivo mago Learchino. – Remigio era sempre più preoccupato.

– L’oste ha parlato di un castello; questa è una piccola casupola. Proviamo a bussare. – Senza aspettare risposta dal fratello si avvicinò alla porta e bussò.

Nessuno rispose. L’indecisione dei due fratelli era grande; non volevano essere indiscreti, poi prevalse la curiosità. La porta era aperta ed entrarono. Nell’unica grande stanza era acceso un bel fuoco e attorno una bellissima fanciulla bionda chiacchierava sottovoce con dieci giovanotti. Ognuno di loro indossava al collo un fazzoletto di colore diverso. I due fratelli non sapevano che fare, se andarsene e non disturbare l’intimità della riunione o presentarsi e chiedere ospitalità per la notte. Di nuovo la curiosità prevalse.

– Buona serata alla compagnia – Disse Casimiro presentandosi – Noi siamo due fratelli, io sono Casimiro e lui è Remigio. Possiamo scaldarci al vostro fuoco?

I dieci giovanotti si guardarono perplessi, la fanciulla si alzò senza esitazione e fece posto ai nuovi venuti.

– Accomodatevi. Qui siete al riparo. Non potete girovagare nel bosco di notte, se vi cattura il cattivo mago Learchino, sono guai.

– E’ così cattivo dunque questo mago? – Chiese Casimiro sedendosi.

– Terribile. – rispose la ragazza – Io sono Celestina e questi sono i miei dieci fratelli. Vivevamo felici fino a che un giorno quel brutto Mago mi vide e s’invaghì di me. I miei fratelli tentarono di difendermi: li trasformò in aironi, per questo ho messo loro un fazzoletto di colore diverso al collo per poterli distinguere durante il giorno. Disperata, chiesi aiuto alla dolce fata del bosco che fece un contro incantesimo: preparò una pozione magica, purtroppo, efficace solo nelle notti senza luna. Solo allora i miei fratelli tornano uomini e possiamo ritrovarci.

– Gli altri giorni? Le altre notti? – Chiese Remigio.

– Sono e restano degli uccelli. Il cattivo mago è più potente della fata del bosco. – Rispose Celestina. Negli occhi verdi le brillò una lacrima.

– Non si può fare null’altro? – Casimiro più guardava la bella fanciulla e più era tentato di aiutarla. Era un ragazzo coraggioso; il mago cattivo non gli faceva paura.

– Trasformati i miei fratelli in aironi,- Celestina riprese il suo racconto –  andai a parlare con il terribile mago. Mi offrii come sua sposa, solo a patto di liberare i miei fratelli dall’incantesimo. Accettò; purtroppo non riuscì più a fare la sua magia al contrario perché la pianta d’erba “Voglio” che occorreva e che lui teneva nel giardino, essendosi dimenticato di annaffiarla, si era seccata. Manca quindi l’ingrediente principale per compiere il prodigio. È un’erba rarissima; non si trova neppure nei giardini del re. Ora i miei fratelli girano in lungo e in largo, tutto il giorno, cercandola; purtroppo finora non hanno avuto fortuna.

– Trovata l’erba, tutto si risolverebbe? – Chiese Casimiro.

– Certo, il mago potrà fare il contro incantesimo, liberare i miei fratelli… io allora sarò sua sposa, anche se il mago è bruttissimo.

– È sempre stato cattivo? – Domandò Remigio.

– No, solo da quando è diventato brutto.

– Da quand’è che è diventato brutto?

– È sempre stato brutto, la situazione è peggiorata quando gli sono cresciuti i foruncoli sul naso.

– Con tutte le sue magie non  Potrebbe compierne una e farsi bello?

– Non funzionerebbe su di lui.

– Non temere, cara Celestina. – Casimiro guardò la bellissima fanciulla negli occhi. Si era innamorato di lei; parlò dolcemente – Farò di tutto per liberarti da questa situazione. Lasciami riflettere sul da farsi.

Chiacchierarono ancora un poco; poi, vinti dalla stanchezza, i due fratelli si addormentarono attorno al fuoco. I dieci giovanotti, uscirono nella notte senza luna e in un turbinio d’ali e di piume si trasformarono in aironi e se n’andarono alla ricerca dell’erba “Voglio”. Celestina, sulla soglia di casa, pianse tutta notte disperata per la sua situazione.

L’indomani Remigio pensò di recarsi dalla Fata del Bosco a chiedere consiglio; invece Casimiro, dopo una bella dormita, si svegliò con le idee chiare. Il mago era terribile perché era brutto e nessuno gli voleva bene. Un dubbio attraversò la mente del giovanotto: non potrebbe il terribile Mago Learchino, a suo tempo, essere vittima di un incantesimo? Decise di fargli visita.

Il castello era pauroso, gelido; nere ragnatele penzolavano dal soffitto, la polvere ovunque era alta due dita. L’aria era umida e opprimente. I passi di Casimiro alla ricerca del mago, risuonavano negli antri bui e nei lunghi corridoi. La sua determinazione vacillò; la paura s’impossessò di lui. Volle vincerla per amore di Celestina e proseguì l’ispezione del castello. Giunse ad un’enorme porta di legno. La spinse ed aprì uno spiraglio: ovunque tavoli e ripiani colmi d’alambicchi; l’odore di zolfo permeava l’aria. Si sentì osservato da due occhietti cattivi. Da un angolo buio sbucò all’improvviso il mago:

– Chi sei? Vattene immediatamente o ti trasformo in rospo.

– Innanzi tutto “buon giorno” caro Mago. – Il giovanotto fece un bell’inchino e si presentò – Io sono Casimiro.

– Che cosa vuoi?

– Voglio aiutarti.

– Aiutare me?! – Il mago era perplesso e incredulo per la sfacciataggine del giovanotto. – Perché?

– Credo che tu sia vittima di un incantesimo.

– Vattene immediatamente!

– Non cacciarmi, ascolta, vorrei aiutarti. Posso aiutarti?

– Vattene subito.

– Mago Learchino – Prosegui coraggiosamente Casimiro – Sono convinto che tu non sia cattivo come vuoi far credere. Vorrei aiutarti. Raccontami la tua storia, vedremo insieme cosa fare.

– Non si può far nulla per me. Sono brutto e vecchio. È stato terribile quello che ho fatto a suo tempo.

– Che cosa hai fatto di così terribile?

– Duecento, o forse trecento anni or sono, rinunciai alla bellezza per l’immortalità.

Casimiro lo ascoltò stupefatto; il mago proseguì:

– A quel tempo ero giovanotto; ero un principe con belle speranze. Con il tempo sarei diventato re e avrei regnato con saggezza. Un brutto giorno, vagabondando per il castello trovai nei sotterranei disabitati una porta segreta. L’oltrepassai e sul tavolo di una cella buia trovai un vecchio manoscritto. Conteneva molte formule magiche. Lo lessi e rimasi sconcertato. Una in particolare era molto affascinante: sfidare la morte e diventare immortali. Decisi di provare.

Il mago, si mosse verso una vecchia cassapanca, l’enorme pancia ballonzolava sulle corte gambette. Era proprio brutto e Casimiro provò pena per lui. Il vecchio alzò il coperchio ed estrasse un libro sgualcito. Lo sfogliò pensoso; dopo alcuni attimi di riflessione proseguì il suo racconto mostrando il manoscritto.

– Mancano le ultime pagine, quelle relative alla morte. Il procedimento una volta iniziato, sarebbe stato irreversibile, se avessi attuato la magia, sarei stato immortale. Confidai la scoperta al mio precettore che mi sconsigliò di mettere in pratica il proposito, reputandolo molto pericoloso. Non l’ascoltai. Il potere e l’immortalità mi parvero ragioni sufficientemente forti per tentare l’esperimento.

Esperimento che riuscì. Con il trascorrere degli anni, vidi morire molta gente, i miei genitori, gli amici, i parenti. Restai solo. Non divenni mai re: nessuna regina visse al mio fianco e a poco a poco il regno si sfasciò, si avvicendarono due brutte guerre e una pestilenza… la morte non mi si avvicinò mai.

Divenni sempre più basso, sempre più vecchio, sempre più grasso e sempre più brutto.

– E sempre più cattivo. – Lo interruppe Casimiro.

– Certo, sempre più cattivo. Nella mia solitudine rimpiangevo il tempo passato, vedevo inutile la vita e desideravo morire.

– Ti sei pentito della tua decisione?!

– Molte volte, soprattutto in questi ultimi anni. La solitudine è terribile. Non vale la pena vivere quando nessuno ti vuole bene; se tu sapessi quante volte ho invocato la morte.

– Non hai paura della morte?

– Dopo tanti anni… duecento… trecento… non li ricordo neppure tutti; non si desidera altro che morire.

– È impossibile che non ci siano soluzioni a questo problema. Ho sentito parlare dell’erba “Voglio”; forse, cercando bene, si riuscirà a trovarla.

– L’unica pianta che esisteva al mondo era questa. – Il mago mostrò a Casimiro un piccolo vaso di terracotta con una misera piantina secca e striminzita. – Ora è morta. Mi sono dimenticato di annaffiarla. Con l’età, la memoria non è più quella di una volta. Duecento o forse trecento anni… sono tanti!

– Se cercassimo bene ovunque? – Insisté Casimiro.

– Questa pianta non esiste più in nessun posto del mondo. È inutile cercare. Non cresce neppure nei giardini del re. Per me non ci sono speranze.

– Le ultime pagine del manoscritto che fine hanno fatto?

– Nessuno lo sa. Senza quelle, la morte non si avvicinerà mai a me.

– Andrò in cerca della morte. – Decise Casimiro – la convincerò a venire da te. Tu libererai Celestina e scioglierai l’incantesimo dei suoi fratelli. Sei certo di voler morire?

– Certissimo. Ormai ho vissuto abbastanza. Ho capito che l’immortalità non è fatta per gli uomini.

Casimiro salutò il vecchio mago e se n’andò velocemente. L’atmosfera di quella stanza, e, in generale del castello, era insopportabile.

Giunto alla casupola di Celestina, le spiegò la situazione, la pregò di informare Remigio e di aggiornarlo sulle scoperte da lui fatte. Raccolse le sue poche cose e, senza perdere tempo, si mise alla ricerca della Morte.

Numerosi furono i tentativi di mettersi in contatto con lei: invano. Nonostante la sua buona volontà, Casimiro giungeva sempre tardi. Lei era dappertutto e ovunque andasse era già passata, lasciando sempre una scia di dolore, gran tristezza e parenti in lacrime. La morte si muoveva velocemente. Casimiro non riuscì mai a raggiungerla.

Non c’era alcuna speranza di liberare la bella Celestina e i suoi dieci fratelli dall’incantesimo.

Tornò sconfitto al castello del Mago Learchino. Disperato stava per varcare il ponte levatoio quando si sentì chiamare, con voce trafelata, dal fratello. Remigio aveva corso per raggiungerlo in tempo e fermarlo.

– Casimiro, aspetta! – Ho parlato con la Fata del Bosco. Ha usato la sua bacchetta magica, ha perlustrato ovunque diligentemente: sembra esista una soluzione.

– Una soluzione? – Casimiro si fermò stupito.

– Con grande pazienza, è riuscita a rintracciare il luogo ove è custodito un antico manoscritto identico a quello del Mago Learchino. La persona che lo ha in consegna è un vecchio eremita; da anni abita in una grotta nei pressi di un altipiano deserto.

– Avrà questo manoscritto tutte le pagine, anche quelle mancanti?

– Certo. Andiamo. Non perdiamo tempo. – Remigio era elettrizzato – Selliamo due cavalli. Dobbiamo, come ha detto la Fata del Bosco, seguire il sole che tramonta, attraversare ben sette monti e sette valli per giungere al rifugio dell’eremita.

Partirono seguendo il sole; lanciarono i loro cavalli al galoppo, in cielo, proprio sulle loro teste, volavano dieci aironi. I due ragazzi sorrisero: erano in buona compagnia.

Galopparono per giorni e giorni, superando foreste e guadando torrenti, senza mai fermarsi. Di notte, la luna piena indicava, con il suo lieve chiarore, la via da percorrere. ai due coraggiosi. Giunsero stremati a destinazione. I’eremita li accolse frugalmente e porse loro, per ristorarsi, del pane secco e dell’acqua.

Seduti davanti al fuoco pregarono il vecchio di intervenire. I dieci aironi, posati sull’unico albero di fronte alla grotta, ascoltavano attenti.

Casimiro spiegò come Celestina, i fratelli e il paese tutto vivessero in una condizione insostenibile e anche il mago Learchino, benché cattivo, andasse aiutato.

L’eremita valutò attentamente la situazione; rifletté a lungo prima di decidersi, infine, disse:

– Va bene; vi aiuterò. – Con gesti lenti, tolse dalle ampie tasche della tunica dieci piccole pietre fatate e ne consegnò una ad ognuno degli aironi dicendo loro:

– Tenete ben stretto nel becco il sassolino. State attenti a non lasciarlo cadere; è molto importante che al momento giusto lo teniate in bocca e ora tornate al vostro paese al più presto. Chiudetevi in casa e non uscite più alla luce del sole per nessun motivo.

Gli aironi bianchi, sbattendo le ali, virarono nell’aria e si allontanarono. L’eremita li seguì con lo sguardo. Rientrò nella grotta e pregò i due giovani di attenderlo fuori. Nella caverna scura, con gesti solenni, prese il libro magico, lo aprì, lo sfogliò, lesse alcune formule scritte nelle ultime pagine. In silenzio mescolò delle erbe rare, le pestò nel mortaio, aggiunse ingredienti segreti e preparò l’incantesimo.

Dal sommo dell’altipiano deserto scrutò l’orizzonte con occhi pazienti. Valutò la direzione del vento e mormorando parole misteriose e incomprensibili, sparse nell’aria la polverina fatata.

– Tornate anche voi al paese. – La voce del vecchio era stanca quando infine parlò. – Ho fatto tutto quanto era in mio potere per voi. Andate, siate fiduciosi e salutatemi la dolce Fata del Bosco.

I due fratelli, dopo aver ringraziato l’eremita, si precipitarono velocemente sulla strada del ritorno. Non persero tempo, non si fermarono neppure durante il temporale: tuoni e fulmini rompevano il cielo. Incuranti della pioggia, proseguirono sui loro destrieri incitandoli al galoppo. Casimiro aveva nel cuore la bellissima Celestina ed era ansioso di vedere se la situazione si fosse veramente risolta.

Stanchi e stremati arrivarono al paese. Splendeva un bel sole quel mattino; in cielo rideva l’arcobaleno. L’aria era tersa, limpida e fresca. Una vivacità nuova aleggiava per le strade. Giunsero alla casetta di Celestina che li accolse gioiosamente con baci e abbracci. La ragazza e i dieci giovanotti erano allegri e giulivi.

– L’incantesimo è finito.

– Guardaci, siamo tornati come prima. – Disse un ragazzotto robusto slaccaindosi il fazzoletto colorato dal collo. – Ora non abbiamo più bisogno di questo. – Lo lanciò lontano festoso.

– È merito tuo Casimiro.

– Tuo e di tuo fratello Remigio – Soggiunse un altro togliendosi un sassolino dalla bocca. – Vi ringraziamo di cuore per quanto avete fatto per noi.

– Potremmo vivere serenamente.

– Riprenderemo a fare i taglialegna.

– Non avremo più paura a recarci nel bosco.

– I bambini potranno oltrepassare la grande quercia senza timore.

– Non conoscevo l’arcobaleno. – Celestina era davvero felice. – Erano anni che non appariva nel nostro cielo.

La ragazza ballava allegramente; battendo le mani, giuliva eseguiva piroette a non finire. I giovanotti, saltellando, si pizzicavano le guance, quai a voler constatare la realtà del fatto. Casimiro e Remigio, quasi increduli, si scambiarono affettuose pacche sulle spalle con i dieci fratelli. Stavano ancora congratulandosi fra di loro quando dalla strada apparve, fischiettando, un giovine e bel cavaliere. Vestiva fuori moda; aveva la spada al fianco e sulla testa un buffo cappello con una ridicola piuma. Si fermò e li salutò con un bell’inchino.

– Ciao – disse sorridendo – non mi riconoscete?

Tutti si fermarono e lo guardarono perplessi. Il cavaliere proseguì:

– Sono Learchino. Guardate: sono identico a com’ero prima dell’incantesimo. Ho ripreso le mie sembianze di allora.

Casimiro, quasi a proteggerla, cinse la vita di Celestina, anche i dieci fratelli le si fecero d’attorno.

– Non temete. – Learchino sorrideva – Ora sono come voi. Vi prego di non serbarmi rancore.

– E i tuoi poteri magici?

– Non sono più un mago e non ho più alcun potere. Sono un semplice giovanotto che dovrà lavorare per guadagnarsi da vivere. La mia vita d’uomo normale inizia adesso, in questo momento.

– Il tuo castello?- Remigio era ancora incredulo.

– Il mio castello non esiste più: è un ammasso di macerie; non sono più principe e non diventerò mai re.

– Da brutto che eri ora sei un bel giovane – Celestina, pur credendo alle sue parole,  non era ancora certa di potersi fidare di lui e si teneva a debita distanza.

– Non temere – Learchino sorrideva e la ragazza soggiunse timida, a voce bassa:

– Casimiro ha superato tante difficolta per me, ora il mio cuore è suo.

– È giusto. – Proseguì Learchino. – Casimiro merita una ricompensa per il suo coraggio e la sua generosità. Mi dispiace Celestina se hai sofferto per colpa mia; anch’io ero vittima di un incantesimo. È terribile essere prigioniero di un maleficio.

– Sappiamo cosa significa e quello che si prova – Un giovanotto parlò a nome dei suoi fratelli – Non ti serbiamo rancore Learchino.

– Me n’andrò dal paese. Qui ci sono troppi ricordi dolorosi per me; non potrei più vivere da queste parti.

– Vieni con me . – Propose Remigio. – Io e mio fratello stavamo andando in cerca di fortuna quando siamo giunti in questi luoghi. Pare che Casimiro abbia trovato già la sua fortuna incontrando Celestina. Qui costruirà la sua casa. Io, invece, proseguirò il mio cammino, vieni con me, viaggiare in compagnia è divertente.

– Accetto ben volentieri. – Learchino era soddisfatto della proposta del suo nuovo amico. Gli permetteva di iniziare una nuova vita.

– Un momento: prima dobbiamo festeggiare. – Annunciò Casimiro allegramente. – Ognuno poi andrà per la sua strada.

I festeggiamenti durarono alcuni giorni. Il vino scorse a fiumi mentre il profumo degli arrosti aleggiava invitante nell’aria. I bambini correvano per le strade, giocavano felici. L’unica osteria nella piazza del paese era gremita: l’oste, per l’occasione,  offrì da bere a tutti gratuitamente. L’allegria regnava ovunque. Gli abitanti del paese ballarono e cantarono a lungo, quando parve che tutto fosse finito la festa ricominciò con le nozze di Celestina e Casimiro.

La sposa era bellissima. Celestina, nel suo abito di pizzo risplendeva fulgida, ma, ancor più fulgidi e brillanti erano i suoi occhi verdi, verdi come l’acqua dei ruscelli a primavera.

I dieci fratelli l’abbracciarono a turno prima di consegnarla a Casimiro. La dolce Fata del Bosco, invisibile, trasformò la misera casupola in una bellissima dimora  e lo stagno in un laghetto azzurro; grande fu la gioia dei due giovani a quella vista. Capirono subito la provenienza del dono e le mandarono in bacio con la mano esprimendo la loro gratitudine:

– Grazie Dolce Fata del Bosco.

Learchino volle dire la sua prima di partire:

– Anch’io ti ringrazio Dolce Fatina, con la tua perseveranza, pazienza e generosità hai vinto.

Fra le fronte dei rami parve a tutti di udire in risposta una musica soave, un fruscio, un sussurro, una voce… le parole si persero nell’aria:

“Con la bontà si sconfigge ogni cattiveria”

L’incantesimo malefico era finito. Il mago cattivo non esisteva più. Remigio e Learchino se n’andarono fischiettando.

Stretta è la foglia; larga è la via

dite la vostra che io ho detto la mia.

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